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La lampuga nuota all’ombra 
degli oggetti galleggianti 
fugge rasa per mangiare 
verde si nasconde a stenti

La lampuga muore 
all’ombra dei limoni 
uncinata dalla fame 
tra le carni e il cuore 

Pescatore che festeggi 
l’arditezza di timoni 
o una nostalgia di ormeggi?
Come cambia di colore

la lampuga che lì muore 
trasmutansi gli occhi in vetro
tassidermici d’amore
macerati con le foglie del limone

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wunderkammer

un samizdat arrotolato
su palchi di cervo
appesi al muro
di una wunderkammer occulta
spoglia di menzogne

Solo furore non meraviglia
clandestinità testuale
und bestiale perdita:
proteggi le mie parole per sempre

Ho tradito la preghiera eterna
per il dissenso 
barattato la mia pace

con le guerre degli altri
fedeli a sé stessi.

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10304

Le Cose che vivono nella mia testa sono nate una mattina di inverno inoltrato, quando i temporali scrosciano interminabili e trascinano via il ghiaccio come un detrito. Sono rispuntate nello stesso punto, crepando la scorza del terreno. Le condizioni: umidità, una certa predisposizione delle zolle alla fioritura spontanea, luce opaca ma favorevole.

Stanotte, in una spiaggia in cui non siamo mai state, un cagnolino nero scodinzolava dietro di noi tra la battigia e la radura disseminata ai bordi del sogno. Ci seguiva da un pezzo, nel morso un legnetto scolorito raccolto chissà dove e custodito con entusiasmo lungo il tragitto. L’aria si addensava addosso salata. A un tratto mi sono girata per chiamare il cagnolino: era sparito. Dov’è andato, chiedevi tu. Non lo so, ora lo cerchiamo. Aveva un ciuffo di spuma bianca sul collo: se vedi un barlume chiaro nel buio qui intorno, è lui. C’era la nebbia. Tutta la nebbia della pianura padana Ah, non c’è più la nebbia di una volta deve essersi spostata nei miei sogni.

Umidità e luce opaca ma favorevole combinano il setting ideale in una mattina di inverno inoltrato – tutto è in ordine, marzo piove e scivola – a smuovere la zolla sotto la quale dorme un seme minuscolo e intorpidito sepolto l’anno prima. Non me ne ero presa cura, l’avevo dato per spacciato. Dovevo risolvere tutto il resto, pensare anche a lui non potevo. Invece il fiore delle Cose che vivono nella mia testa era comunque spuntato. Guardalo, è per forza lui.

Come si chiamava quel cagnolino? Dovresti saperlo tu, dici. E come faccio a saperlo io. Non sapevamo il nome. Era inciso sulla targhetta che tintinnava fuori dal ciuffo bianco, ma impossibile decifrarlo.
Sembra incredibile: nei sogni è possibile fare tutto, tranne leggere. Si attivano alcune zone del cervello a discapito di altre ed è forse questo il motivo per cui nessuno, in nessun sogno sognato nella storia del mondo, è mai riuscito a decifrare un testo correttamente. Accade lo stesso con l’intelligenza artificiale: generando un’immagine che dovrebbe contenere un testo scritto, il risultato è una storpiatura goffa. Pny,

Il fiore delle Cose che vivono nella mia testa, che in effetti sembra avere tutti i tratti dell’allucinazione già dai colori – blu di persia, nero nerissimo, rosso amarone, lo stelo giallo: in natura non esistono fiori così – è forse la forma più pura di realtà possibile. E per rendere la realtà non possibile ma abitabile, la purezza va recisa. Sì lo so, era bello quel cazzo di fiore. Era strano. Chissà se ne spunteranno altri altrove, in terreni altrui, o se resterà anche lui fuori dai libri di botanica e dai reali possibili.

Il cane non aveva nome. Ciao. Aveva cambiato direzione in cerca di una tana sicura, o di padroni nuovi.


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Come tremano le cose riflesse nell’acqua / ril.

Il pugno dato sul tavolo 
sveglia rispettive e venerabili ombre.

Hanno tutta la semantica rovesciata
due linguaggi che si incontrano
Appartengono allo stesso grido

fatto di tante piccole
voci disperse 
in un’eco 

febbraio esotico
questo prugno
carico di immotivato erotismo 

ci stringe i polsi,
cura universi:
li allea

li scopa
li altera
e li moltiplica

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030304

Sapevi dell’arrivo di marzo. Già da un po’, lo sapevi: gli squarci di sole che intiepidiscono la fronte e i polsi, scadenza dell’assicurazione il 14, la pioggia di marzo testa o croce: smette, non mette. Forse. Comunque è ostinata. È arrivato marzo: lavori. Più che lavori incastri, scrivi, ti spertichi in mediazioni buffe o pericolose, pensi battaglie, vai, dai corpo, incastri, scrivi; lavori. Ami. Paghi l’affitto.
Riempire la caffettiera è l’assist da manuale – preciso solo negli intenti, gli schizzi sovversivi finiscono sulla tavola – per poter riprendere in mano il tuo trigger preferito, il filtro della moka.

Ti sapevi fatta di carne tesa e solida, scoperta eppure ignifuga; poi hai smesso di saperti. Dicembre 2019. Era un dicembre già caldo. Hai cominciato a sentire gli angoli della pelle tirare, hai visto che la tua stessa carne tesa e solida si era ricoperta di filtri, decine (forse centinaia) di piccoli filtri soffocavano bocca, addome, mani e faccia. Così aderenti, perdevano l’intrinseca funzione originaria di trasfusione con l’esterno fondendosi in una membrana impermeabile che ti confondeva i connotati e nulla, non un atomo di te passava perché addensato e compresso in quello spazio troppo piccolo a contenerti che è il tuo corpo.
Ti inchiodava un male bestia quando scollavi qualche toppa con violenza, ma certe operazioni se fatte con delicatezza procurano, più che dolore sul momento, cicatrici insanabili. È stato questo il vero lavoro non retribuito in solido, e ostinato, parallelo all’altro: scrivi, incastri, medi, scolli, medichi le ferite. Poi paghi l’affitto. Ami?

Una volta, quando un ingranaggio del meccanismo non girava, smettevi di immaginarti e scappavi a immaginare altrove, svalicando frontiere incappucciata come un fuggitivo. Forse sembravi più una bestia senza padroni che andava a morire tra semi-sconosciuti, lontano da occhi amici. Che ti credevano morta, Raffaella. Quando poi tornavi, effetto sorpresa rediviva, era difficile spiegare senza eccedere in descrizioni fantastiche che eri solo un’esule di ritorno da un breve auto-esilio con una vita e un nome.

Incastri, medi, scolli, medichi e scrivi tanto degli altri. Mai di te. Per tornare a farlo, a scrivere – forma più costosa, e quindi pura, di manifestarsi – qualche mese fa hai scoperto che non bastava scollare toppe, limare, così vicine le une alle altre, la membrana che compattano. Dovevi incendiarla, proprio come facevano quei burning monk tibetani in lotta contro l’oppressore che si protestavano addosso per protestare il potere. Il tuo oppressore eri tu: ok sì, un po’ borghese.

Sapevi dell’arrivo di marzo non perché tieni il conto dei giorni o delle stagioni ma perché quella membrana, che ora coincide al millimetro con la tua pelle, torna a scaldarsi e a vibrare. L’intuito, la fantasia e il desiderio, quando tendi una mano o stringi un polso non tuo, sono tuoi. La lotta è la tua, ma hai deposto le armi contro di te. I nemici erano là fuori, tu lo sapevi, ma li hai sempre scambiati per chi, invece, era con te.

Ecco, appunto, te, ché non serviva trasporre su mappa tutte le schedature e le identificazioni della polizia raccolte negli anni per poi unire i puntini sperando – finalmente cazzo – uscisse fuori il tuo volto vero. L’abbiamo trovata, è lei.
No, la lotta è tua ma non sei tu la lotta.
Tu, al centro esatto del nucleo incandescente, sei una persona che ama e che lotta.
Chi, per cosa, resta fuori dal corpo della pagina: amato, difeso.






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LA LOTTA PER LA DEMOCRAZIA PASSA DALLA DIFESA DI DROGATI E MISTICI


breve riflessione naïf sulle auto a noleggio in Portogallo e sui monaci tibetani in Cina

Stamattina dovevo prenotare una macchina a Lisbona. Dopo dieci minuti scarsi – mi serve da domani – di comparazione tra proposte di rental cars vari arrivo a un carrozzone ibrido con chilometraggio illimitato e copertura incidenti compresa. Prezzo totale: 13, 31 euro, più una decina per i costi accessori.

Poco più di 5 euro al giorno per noleggiare un’auto che in Italia, sempre al giorno, ne costerebbe almeno 50.

Confermo un piccolo personale pregiudizio, e cioè che tra i primi indicatori del grado di civiltà di un Paese, al netto del costo casa che ormai è piaga occidentale diffusa e virulenta, ci siano: 1) il prezzo per il noleggio di un’auto (a basse emissioni); 2) la quantità di droghe legalizzate (in questo caso tutte).

Il Portogallo ha depenalizzato possesso e consumo di tutte le sostanze stupefacenti, dalla cannabis all’eroina, 23 – ventitré – anni fa.
Nel 2001 l’1% della popolazione portoghese era dipendente da eroina, sostanza che da sola causava una media di 80 morti l’anno. Nel 2011, a dieci anni dalla riforma pionieristica sulle droghe, i morti per overdose da oppiacei sono scesi a 11.

Ventitré anni di uso combinato di regolamentazione legislativa e informazione non stigmatizzante hanno reso il Portogallo uno dei Paesi europei col più basso indice di consumo giovanile e il più basso tasso di mortalità droga-correlata.

La Storia non ci insegna quasi mai la vita ma l’interpretazione dei dati può aiutarci a comprenderla: l’esempio portoghese ci racconta che accettare e normare una realtà esistente, anziché reprimerla, nel medio periodo aiuta la salute pubblica, alleggerisce le carceri, responsabilizza e libera i cittadini.

Alle 9 e 20 una cara amica mi manda questa foto da Saigon, Vietnam.

Secondo quanto riferito da Radio Free Asia, giovedì scorso le autorità cinesi hanno arrestato, dopo aver picchiato e ferito, oltre 100 monaci che protestavano contro il progetto di una diga in una prefettura autonoma tibetana nella regione del Sichuan, a Dege, in Cina.
Dege significa letteralmente “Terra della Pietà” ed è uno dei centri più importanti della cultura tibetana; la costruzione della centrale idroelettrica annessa alla diga spazzerebbe via sei monasteri e due villaggi.


Dalle fonti, rimaste anonime per motivi di sicurezza, apprendiamo che i monaci trattenuti sarebbero stati distribuiti in istituti sparsi nella contea di Dege, costretti a portare con sé biancheria da letto e tsampa, un impasto di orzo, spezie e sale molto diffuso tra sherpa e nomadi perché comodo da preparare e facile da conservare.

La nonviolenza radicata nella resistenza dei monaci buddisti pare contraddirsi nella prassi talvolta utilizzata negli ultimi decenni (l’autocombustione dei monaci-torcia), e sembra farci dimenticare quanta forza, estetica e politica, ci sia invece nel grido di disperazione di un popolo oppresso e perseguitato.

A Saigon, l’11 giugno del ’63, il primo monaco-torcia scende da un’auto, si siede a terra nella posizione del loto e si fa versare addosso da un confratello una tanica di benzina. Thich Quang Duc brucia, in mezzo alla strada, per protestare contro l’allora presidente cattolico del Vietnam del Sud Ngo Dinh Diem che negava libertà di culto alla maggioranza buddista.

Il primo burning monk a Saigon, Vietnam del sud, 11 giugno 1963. Foto di Malcolm Browne, reporter Associated Press

In un mondo che ha progressivamente rimosso dalla vita dell’uomo Dio e Droga – strizzando un occhio o chiudendone due davanti alle sostanze eccitanti e alle divinità brutali-, la lotta per la Democrazia passa anche dalla difesa dei drogati e dei mistici.

E questa non è un’apologia di Dio o un incentivo al consumo di sostanze psicoattive, figuriamoci (soprattutto per quanto riguarda Dio).

È solo un piccolo e personale pensiero sugli archetipi umani che vivono e si concretizzano nei margini, negli spazi porosi ai bordi della società e lì affinano le forme di lotta. Questi uomini arrestati, soppressi, ammazzati. Questi fiori di loto umani che bruciano nella notte, finalmente liberi.

Questi pazzi in culo che, tramite i propri corpi scarnificati e infiammati, difendono la libertà dei popoli e il diritto alla trascendenza sono l’ultimo vero baluardo di resistenza nonviolenta alla violenza dei poteri contemporanei.

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Under the Volcano

Fossi stata un’isola, quest’anno, sarei stata all’ombra di un vulcano. Ma, scrivevano e riporto: nessun uomo è un’isola.

Tra i libri del 2023 benedico questo, pietra lavica di Marco Rossari

L’ombra del vulcano, Marco Rossari
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Brecce

A me la vita non l’hanno cambiata i libri, l’hanno cambiata le persone. Henry Michaux è stata persona che ha scritto libri di rara bellezza metamorfica.

Brecce, Henry Michaux, Adelphi
ibidem

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(è illegale)

Né annebbiamento né dimenticanza né fuga né evitamento: solo ricodificazione epifanica generata da stringhe informative impastate di memorie, affetti e rêverie a percorrere le intercapedini spazio-temporali di quel mistero insondabile che è la coscienza.

Il processo chimico della dissoluzione del sé ara e dissoda il terreno psichico erigendo su fondamenta multidimensionali, ancestrali e alla cieca apparenza invisibili relazioni con ciò che abbiamo amato anche solo un mattino.

Nella riformulazione semantica di spazio e tempo quel mattino (se abbiamo un’anima, l’anima è quel mattino) continua a esistere ogni giorno, offrendoci la possibilità di prendercene cura senza pretendere che si manifesti di nuovo.

Montale: non mai due volte configura il tempo in egual modo i grani.

Ma i grani sono vivi e, come demoni e angeli controvento, fremono sulla terra.

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Scrivimi una poesia

Mi ricodifico

nelle intercapedini

dei circuiti siderali

che separano

e significano.

Non si fa che scrivere

e riscrivere.

Dire

/ divelte le orbite

quando si scrive una poesia:

la villania umana non ti bruci

più

ti abbracci la parola.

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Duro intelligere, morbido sentire (il peggio che ci possa capitare?) P.C.

P.,

P. di persona compressa in parola puntata e scritta con l’inchiostro simpatico.
Chissà perché accomunano l’invisibilità a occhio nudo, la scomparsa apparente, alla simpatia. Cosa c’è di simpatico nel non vedere, non percepirsi, non conoscere più.
Ci si deve ingegnare: guardare in controluce, o cambiare strumento. Per ora la chiameremo immaginazione. Nell’ultimo paio d’anni è sempre toccato agli altri immaginarmi quando non c’ero o ero altrove (diresti: forsestavolta impari); agli altri spettava in maniera controintuitiva, per sottrazione, conoscermi.

P.: un nome accorciato, per pudore o tatto che sia, rischia di amputare la natura del destinatario, di sfumarne l’identità reale e ricomporla in idea postuma, fantasma. Nessuno è un’idea, tutti o quasi parliamo ai fantasmi. 
Tu coi tuoi devi averci fatto di quelle discussioni chilometriche che quando ti ci ficchi dentro è perché, a costo di scarnificarti coi rovi di spine che la nascondono, vai avanti fino a che non sbatti sul corpo nudo della verità – nessuno ti ferma – e appena la trovi la baci. Non basta, devi succhiarla. Sanguina. Un’altra verità ti aspetta, più avanti, ancora strada da fare e spine da togliere. Ti pulisci la bocca col dorso della mano. 


Venti giorni fa queste vie spaccavano una città dormiente in cui gli unici a rimanere svegli erano i bar dei cinesi, capsule del tempo estivo con il compito di preservare qualche pensionato ciondolante e i figli dei ricchi (a cui i ricchi hanno dato i nomi dei luoghi in cui stipano i soldi: Ginevra, Adelaide, Sofia) a fare colazione coi coglioni girati prima di partire per Forte dei Marmi, Margherita Ligure, Cortina (quelli di villeggiatura comunque erano peggio). Attraverso una crepa di luce abbacinante guardavo quell’entusiasmo lezioso mascherato da scoglionatura che non mi ha mai appassionato: se gratti via l’entusiasmo restano solo i coglioni scartavetrati dalla noia. 


Non sono allenata alle sparizioni. Con i miei, di fantasmi, ci ho parlato per un pezzo. Mi incazzavo come una biscia calpestata perché non rispondevano. Hai la comprensione magica, Raffaella, li capisci. No, facevo le domande sbagliate, e loro – bravi, integerrimi, lo sguardo granitico e vacuo – mai una parola. Dopo anni di silenzio e odiose reticenze ho smesso. 


P., la tua è una piccola sparizione, si direbbe di poco conto. Non posso dirlo. Posso dire della solidità dei miei atomi, del rumore che fanno quando si scindono nello scontro con gli atomi altrui – crack – dei desideri che appena si materializzano lascio mi percorrano come scariche elettriche sottocutanee o di quando per esempio io ho deciso di staccarmi la luce perché temevo il corto, il sistema non avrebbe retto e non avevo alcuna intenzione di zompare all’aria. Tutta questa intelligenza per non capire che se il sistema lo stacchi, se non arriva più corrente, smette di funzionare. Smette di funzionare R. Sparisce R., non P. 
P. non è mai arrivata.

Su di te ho riversato solo una colata di affetto acerbo e rabbioso. Era presto per ipotizzare di restare, era tardi per incontrarsi. Un legame piccolo è una catenina sottile dalle maglie esili e luccicanti impreparate a reggere gli inciampi della giornata qualunque prima, gli strappi del tempo e le esigenze reciproche poi. Crack.


Te ne sei andata come sei arrivata, prima in sordina e poi con un boato. Io avevo abdicato molto tempo prima, poco dopo il principio, perché mi sentivo come quel Prufrock di Eliot, formulato, trafitto da uno spillo che inoculava nettare nuovo nel mio universo e avevo l’universo stanco. Non ho osato turbarlo.

P., non si parla che a sé stessi. Rivolgersi agli incontri mancati, alla ferita aritmica che lasciano – lo spillo che prima punge e poi inchioda – è solo un modo per cauterizzarla, per prepararsi a nuovi incontri da non mancare? È anche quello, sì.

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camere separate

 

Il tassista disegna con l’indice un 25 sghembo sul cofano impolverato di una mercedes dei primi duemila. Mi esce una risata complice e un po’ idiota quando gli dico che può parlare in francese. Dopotutto 25 euro è una cifra abbordabile per la tratta, ça va. Mi sono sempre stati sul cazzo i tassisti e ai tassisti sono sempre stata sul cazzo io; ci lega un astio cortese e pacifico che vira verso l’odio reciproco quando arriva il momento di pagare. No non ce li ho i contanti diocane. Ma stavolta facciamo un’eccezione, come ti chiami?, Fernando.

Gli interni di queste berline li progettavano tutti uguali, Fernando, un coordinato di romantico rigore estetico da rivista di settore: i sedili, il volante, e il bracciolo rivestiti di pelle champagne che negli anni annerisce nei punti di appoggio – il culo sprofonda, l’impugnatura sbiadisce, il gomito usura il poggiabraccio. A 16 anni volevo una macchina così, un’ammiraglia di cinque metri capace di lanciare a centosettanta all’ora la punta del cazzo che non avevo e di contenere nel suo abitacolo la sorda deflagrazione degli impulsi borghesi di provincia.

È passata una vita. A Parigi, dopo giorni di pioggia insistente, è tornata un’estate timida e sono tornata io sospinta da una folata di bora latente che più volte ha provato ad attraversarmi incontrando la resistenza del cazzo che non avevo. Diciamoci la verità: quanto tempo violentato ma pure sprecato, Fernando. Il semaforo è ancora rosso, guarda quel rivolo di piscio che scola sulla scalinata di St. Roch come luccica al sole. Siamo quasi arrivati.

Ho riletto Camere separate. Alcune pagine si sono ispessite con l’acqua filtrata dalla cerniera dello zaino asciugandosi in rigonfiamenti interni che ne deformano lo spessore.

Non si rendeva conto che la sofferenza lo stava arricchendo e che il suo sviluppo avveniva in direzione dell’interiorità. Avrebbe preferito fare l’amore, divertirsi, espandersi in circuiti emotivi e alleanze politiche e invece si trovava a lavorare, nella contrazione e nella compressione, al mistero della propria solitudine ignaro che, così facendo, si avvicinava alla vena più solida […] a un motivo per crescere senza essere immediatamente macellato”.


Mi tiro sù i jeans che due mesi fa non riuscivo ad abbottonare. Si è solidificato, all’altezza di quella che potrebbe essere la bocca dello stomaco, un grumo pulsante di tristezza. Ne sento la gravità, il peso preciso, quando mi stendo sul piumone del letto che occupa praticamente tutto lo spazio abitabile di questa stanza da 8 metri quadri. C’entriamo io e il letto, nell’incastro orizzontale e morbido di una geografia notturna in via di assestamento. Non sono mai triste, avere a che fare con la tristezza mi confina in un angolo scomodo di me in cui faccio fatica a rimanere senza scompormi. Oggi resto con un atto di forza. Il peso del grumo spinge sul poligrafo che sovrascrive la tavola dei miei comandamenti emotivi. Sii gentile. Lo sono sempre stata, fino a quando non lo sono stata più. Sii aperta. Sono cominciati i problemi.

Lo vedevo, Fernando, che mi guardavi di sottecchi dallo specchietto retrovisore, che avevi quello sguardo interrogativo di chi solo per mancanza di confidenza non chiede cos’è che ti fa male?

E io ti avrei risposto, proprio per mancanza di confidenza, che forse, più di tutto, mi fa male l’assenza della parola. Manco a dirlo, avresti capito.

Ogni volta che ordino uno chardonnay, in qualsiasi punto di Parigi io sia, proprio mentre accendo la sigaretta d’accompagno, compare un’apetta. So che sei tu a ronzarmi attorno, rompendo il cazzo in altre forme che assumi contro la tua volontà. (Quella di oggi però era una vespa, mi punge mentre lo scrivo, e mi sembra la miglior lezione possibile di linguaggio performativo).

L’ultima pagina di Camere separate è lo scarabocchio ragionato di speranza di un libro che comincia con la fine e alla fine si schiude con un soffio. Esce fuori, sempre e solo in filigrana per fortuna, quella caterva di maturità e di gentilezza e di amore che in Altri Libertini era invece repressa o forse solo nascosta dalla gioventù disperata e dalla lingua secca che le dava corpo.

“C’è una voracità, che hai con le persone che ti vivono intorno, che mi spaventa. E questo tanto più perché io so quanto, dentro di te, ci sia solamente un fondo di sincera bontà.”

Nella sintesi si dischiude, semplice quanto chiaro, il centro. E nel centro Tondelli ci affonda, annaspa, poi risale per riprendere ossigeno, con la visione di una lingua ritrovata che era forse solo nascosta dalla rabbia di essere.

Io sono questo libro. E tutte le domande che si porta appresso.

Ho amato il volto che ho offeso, o ho offeso solo il mio desiderio? Ho amato l’ultimo volto che incontrato e da cui mi sono difesa?
Pesa la parole: ogni milligrammo di inchiostro visivo è un significato che ingiustamente aggiunge o imperdonabilmente sottrae.

Sì, l’ho amato in quel modo in cui le anime impure e purissime nell’impurità si amano quando si sfiorano si riconoscono e poi cominciano a custodirsi. E se non le accogli in quella parte incorrotta di te che pulsa allora poi lo fai male, e male, e male ancora, ma questo è Roth.
Nella catena cacofonica di significati irrisolti stano l’anfratto il cui si è annidato l’errore di sistema, l’inizio della cesura. Resuscito nello sbaglio, da lontano, lo custodisco e lo aggiusto. Ti custodisco con la me incorrotta, che non ti ha detto qualcosa che non sai, quella che non offende e non scappa da sé mai. Sei in questa zona franca di me che non conosci e in cui respiri senza rabbia.

Lo chardonnay è diventato piscio, il braccio viola. Era una vespa, non eri tu.

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Clc #3

(o di cose scritte un oggi di mesi fa col senno di poi)

Sempre so dove sono e tocco in punti sconosciuti la fibra ferrosa dei miei confini, riconosco il fuoco che li percorre e chi prova a passarci attraverso. Spesso bruciano a lungo prima, consumando la soglia dell’incontro.

Ti cerco tardi. Stavi bruciando. Ti trovo. Riarsa.

Sei esattamente dove sono io anche se dove sono io non ci sei mai stata. Nel silenzio di una notte normanna quando le luci si spengono e la notte è un vetro screziato che rifrange gli eventi. Sei in tutto quello che non abbiamo fatto insieme, e in quello che insieme non ho fatto da sola. Nelle increspature notturne della Senna. Nello sfregio. Sei nella schiuma che affiora da una vasca di periferia. Nella sbronza gridata dall’inglese che scivola ora sul ciglio del marciapiede umido di rue tholozé. Sei nelle mie responsabilità. Nella botta di popper che evapora dopo aver scaldato le orecchie e chiavato le tempie. Leather cleaner: sei nel bavero dei miei mocassini. Sei nella sparizione presenza. Nelle Elegie duinesi di Rilke: /quante volte dal dolore sboccia un progresso beato/. Nella santità del rispetto violata. Nella consistenza del tuo polso che invento da un ricordo piccolissimo. Sei nel perdono che non si dà e nella rabbia che non si risparmia. Nella lucidità senza trucchi. Nell’inganno che non mi appartiene ma ha infestato il silenzio, questa gramigna umana. Nella piccola grande rivolta delle insegne commerciali capovolte per non pagare le tasse. Nella veemenza dell’onestà. Sei in Camere separate. Sei nel disarmo, ma anche nella sommossa febbricitante delle banlieue. Nella irriducibilità a qualsivoglia forma di sottomissione altrui. Sei nello spazio che ho difeso a sprangate. Sei contro. In un bacio lungo e senza preavviso rubato a casa mia quella sera a cena. Sei bandiera piantata sulla superficie di un pianeta da colonizzare per una nuova specie. Sei il fiotto di sangue che sgorga da quella ferita. Nei sottotesti. Sei nell’azzurro obliquo del cielo di fine marzo, gli occhi tuoi. Nei morsi pretesi. Sei nella mia testardaggine una mina antiuomo calpestata di peso. Nella minaccia di un temporale che scroscia in un’altra città. Nel bene prima del bacio e dei morsi, in quello che ti voglio e non ho saputo volerti dopo. In ogni esubero di immaginazione. Nello scotch per pacchi con cui una signora francese senza età ha appiccicato nel mezzo gli occhiali neri. Nei segreti sepolti nei Balcani. Sei nelle piccole rivolte di oggi che cambieranno qualcosa domani. Nel silenzio siderale e lontano di un’altra vita. Sei dove io arrivo in ritardo e dove tu non sei. Nelle parole che non vuoi. Infatti sei altrove. In altri orizzonti, tuoi solo. In quel ritornello sornione dei Pixies, sempre e soltanto tuo. E non sei e vai – ma c’è un pezzo di te che resta e si salva – nel bagno del Bataclan, con me. Hey. Un po’ sempre. Strazio.

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campo lungo cinematografico #2

A quel punto, un cameraman attento, con un guizzo di facile ispirazione godardiana, avrebbe staccato l’obiettivo dai parlanti, e si sarebbe soffermato su di me il tempo di un respiro rotto da un flashforward.

Fosse un fatto di cronaca da terza pagina, sarebbe il collasso di un edificio in pieno centro.
Crollata palazzina storica di quattro piani, probabile fuga di gas. Non si registrano vittime: al momento dell’incidente nessuno in casa. Dopo qualche ora i soccorritori avrebbero accertato che sì, nessuna vittima, ma no, il palazzo non era vuoto. Dentro qualcuno c’era, e adesso è all’angolo della strada, muto e incenerito, a studiare le macerie fumanti con un cerino in mano.

Guardo i detriti dal futuro, oggi, mentre in una rua di Montmartre raffiche dal sapore autunnale fanno svolazzare i tendoni delle bancarelle dei robivecchi.

Ho rimandato il bisogno di ricapitolarmi, di condividermi. Espletate le formalità adulte con quella certezza granitica che sempre mi rivendico ma che spesso sfocia nella presunzione di poter risolvere tutto, ho procrastinato la risoluzione dell’enigma di me con l’altro. Non ho appiccato io l’incendio con te, ma non ho mosso un dito per spegnere le fiamme silenziose che ne bruciavano la porta di ingresso, e poi l’atrio, e infine tutti e quattro i piani di quello che pareva il cantiere di un palazzo in costruzione. Il crimine peggiore è stare con le mani in mano.

Oggi una calma quasi artificiale mi invade. La paura del dolore, che prima avvertivo come il solito tic borghese da cui scappare a gambe levate, diventa una stringa straripante di informazioni che trova il suo punto di innesto sottocutaneo nell’incavo della mano destra (il reticolo di nervi proprio della carezza o del pugno). Ogni mio raro corteggiamento, ogni avvicinamento a un pianeta – forse una galassia, diversa dalla mia – si è sostanziato del vile effimero avvicendarsi di volti a cui ho concesso lo scettro temporaneo per regnare, in subordine, su una parte del mio impero immaginifico: la mia rete di metropoli inespugnata e inespugnabile.

Si disvela con una calma quasi artificiale ma spietata il segreto insito nella collisione tra poteri condivisi – non concedere lo scettro, ma regalare la visione sul regno. Ecco l’imperdonabile pugno che torna carezza.


Sopra scorrono veloci montagne di nuvole – spazzate via dal vento francese – e a intervalli irregolari gettano un cono di luce diversa sulle cose: in quella velocità ci sei tu, porcellana e oppio. Sei negli occhi del vicino di tavolo che si sofferma sulla crosta della soupe à l’oignon. Nel pacchetto di sigarette vuoto e accartocciato in un rimprovero. Nella voce che chiama flebile dalle macerie. Sei nel moto centrifugo di uno sguardo scagliato altrove. Nella tua pelle diafana che cerca rifugio in cuori più grati. Nel passaggio di fuoco tra la realtà e il sogno. Sei in questo sangue maledetto che ti ha rigurgitato come un corpo estraneo poco dopo averti riconosciuto. Sei nella rinuncia dolorosa della carne che voleva incendiarti per guarirti dai lividi e lasciartene di nuovi, ma dolci, fatti di morsi e parole. Sei nella parola ritrovata. Negli occhi al cielo di un litigio non evitato. Nei paesaggi che cambiano. Nella rabbia che non ci sopravvive. Sei qui dentro ogni cosa, quando ogni cosa smette di essere cosa e diventa sé stessa

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campo lungo cinematografico

La città riposa. Nel campo lungo cinematografico su una via dante deserta e buia cammino a passo deciso in alto al centro, derivando a sinistra dell’inquadratura fino a dissolvermi nella traversa di casa.

Ho aperto la porta esterna, poi il cancello – per ultimo il portoncino di legno blindato in cima a due rampette di scale – almeno 325 volte nell’ultimo anno, un’approssimazione al ribasso sufficiente a consolidare un’idea di dimora stabile da occupare e in cui evolvere a cadenza vieppiù quotidiana.

Quando ci sono entrata la prima volta non ero poi così decisa: il prezzo, la posizione del cazzo, la rapida assertività sul mio nuovo posto nel mondo le variabili sospese che roteavano in un punto interrogativo nell’angolo della cucina (che poi è anche sala, e camera da letto). Era metà settembre, l’aria cominciava a frizzare; mi acclimatavo piano.

A dicembre una pila sbilenca di libri riempiva lo spazio vuoto tra il termosifone e il davanzale. Dalle finestre incorniciate di verde e rosso del palazzo davanti due impiegati di banca avevano visto la mia moka sbruffare, ogni mattina alle 8, mentre cercavo il reggiseno lanciato la sera prima o sulla sedia o dimenticato in bagno. Gli unici due uomini ad avermi visto le tette da dieci anni a questa parte, lucky you. 

Non è la pigra inerzia a muovermi, ma un meticoloso gioco di costruzioni e conquiste: a febbraio era già quasi tutto limpido, il punto di domanda dissolto, il reggiseno sempre sulla sedia, o in bagno.
Avevo ricostruito e arredato il mio spazio vitale attraverso il dialogo serrato con uno spazio semi-sconosciuto, nuovo, nel modo che meglio mi riesce: un piano indistruttibile nei punti principali, gli imprevisti dei dettagli da sistemare in itinere.

 

Ma gli altri? Parrebbe esserci un buco di sceneggiatura, o meglio: il film manca di relazione tra personaggi. Di movimento. C’è l’ambientazione, c’è la trama, l’orizzonte degli eventi. C’è il protagonista. Ma dove sono gli altri? Si può fare una biografia, e se non una biografia una storia, da soli? 

 

È pieno di comparse, dico. Non sono mai stata da sola, in fondo. Eppure spulcio il copione e non non trovo dialoghi memorabili col personaggio principale. Malgrado le tante figure funzionali all’incidere dell’azione, di cui è pieno zeppo.

 

Su 325 aperture di porta, quelle in cui l’ho aperta davvero sono state 3, forse 4. La prima volta una sera di marzo. Tra i piccoli piaceri della mai sopita umana perversione, almeno per me, va menzionato quello di riunire attorno a un tavolo persone che si conoscono di sguincio o non si conoscono affatto. Sei o sette persone al massimo, numero ideale per rendere divertenti gli esperimenti sociali. 

Tu eri arrivata in ritardo con un vassoio di paste sfatte tra le mani. Avevi gli occhi viola: una bellissima auto-denuncia vivente.

Tra sei o sette persone sconosciute sedute insieme a un tavolo, devono essercene almeno due, preferibilmente alleate, prive dell’imbarazzo che impedisce di mettere nel piatto un argomento scottante, le uniche due persone che resteranno insieme a gustarsi l’imprevedibile piega che prenderà la discussione di lì in avanti. Avevi lo sguardo obliquo tagliato di rabbia e bagnato di tenerezza che hai spesso, sempre. Dopo mezzora avevo capito che la mia alleata eri tu

xxx

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1 1 2

In sovrimpressione appare

chiama subito il numero

unico di emergenza (NUE)

quando qualcuno scompare

per denunciare la pericolosa

tendenza a scappare

dei microscopici non-eventi

accaduti tra le 3

e le 3 e 20

“Agente li ho visti: correvano

sui fili scoperti”

“Fornisca i documenti”

Con la digos, cretina

le generalità non le inventi:

“sono un bar di quartiere

la mattina che senti

al tg la notizia di una bomba

inesplosa

il gatto randagio

che le riposa accanto

e la disinnesca

con la zampa mutilata”

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P.

All’immagine mentale con cui attribuiamo forma e figura ai sentimenti diamo spesso una dimensione aerea che non mi sembra appartenergli. Il suo habitat non è l’aria; non è nell’aria che si riproducono le cellule sentimentali. Ci abita il corpo, sì, ma la confusione tra i due piani genera un grave errore di prospettiva.

Pensa all’epidermide di P.: puoi ritracciarne lo spessore esatto (a matita, la penna falserebbe il tratto per eccesso).

Il tratto è morbido e deciso: ancora prima di interrompere la linea, l’insieme di punti tradisce la differenza rispetto a una comune epidermide (ne conosci abbastanza da poter annotare una diversità che abbia sufficiente rilevanza empirica).

Lo strato esterno della sua pelle è più sottile, come se tra derma e epidermide ci fosse un interstizio ulteriore, intermedio, che al tatto diventa un vuoto pneumatico appena percettibile. Se eserciti una leggera pressione con i polpastrelli sul suo avambraccio, la superficie riprende il colore originale con una frazione di secondo in più rispetto alla pelle di chiunque altro.

All’inizio, stringendo un po’ più forte, ti sembrava di essere sempre sul punto di romperla, allora mollavi la presa: avevi appena generato il tuo personale e grave errore di prospettiva.

Ti fossi concentrata meglio, avresti capito subito che era proprio da lì che nascevano i suoi continui lividi, le macchioline brune ed effimere in cui si addensano le tracce dei voli notturni (la chiama distrazione, un termine ingrato). Quello era lo spazio sotterraneo in cui prolificava la sua fantasia, si moltiplicavano i desideri, viveva lei.

Il sentimento ha una dimensione liquida. È il fluido caldo e vischioso che – esercitando una pressione poco più energica e mantenendo salda la presa – potevi trasfondere dalle tue dita a quello spazio intermedio: un liquido di contrasto che fa un po’ male appena entra, poi comincia a scorrere, e col calore irrora e illumina zone nascoste invisibili all’occhio umano.

Non stavi rompendo niente e nessuno – non si può rompere un fluido: stavi interrompendo la trasfusione prima che il tuo liquido – il magma di ciò che sei: parole, una buona dose di intuizione, la carne viva, l’anelito a librarti qualche centimetro sopra la terra – cominciasse a scorrerle dentro.

Hai confuso la paura di romperla, di procurarle altri lividi, col panico di ustionarti tu, assecondandolo. Hai interrotto il flusso generando un’emorragia meritata perché evitabile: ti sei ritrovata in mezzo alle parole non dette o tradotte in un ringhio, la carne dolente, a piedi scalzi sulla terra senza ipotesi di voli da spiccare insieme.

Resta un fluido cruento e raggrumato che ti ricorda chi eri e non hai mostrato di essere: un umano capace di amare.

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Brucia sull’altare dei giovani cuori lo slogan della rivolta sbagliata

le assi logore delle trincee inchiodate agli orecchi

gli amuleti scaduti il retrofront del respiro

Salva senza paura l’argento della mano

che è tintinnato sulla tua pelle

prendi la mira

⁃ l’alfabeto suo straniero tradotto in simultanea dalla pesca sulle labbra

posa per sempre il fucile

/ Non scappi non spari.

guarda:

nel falò della tregua

ti bruciano gli occhi

dal troppo vedere

quanto c’era da amare.

resta con la doppia lama

che affetta e seziona

il tuo bulbo rancido

/ non scappi non spari

guarda:

bruci sull’altare

dei cuori invecchiati

salva il seme dolce

di quel che non si è stati.

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DOVE SONO ORA

DOVE SONO ORA

Nella lingua

srotolata in un salmo

morsa e passata

sul palmo, nella paura

del colore che sfida alla corsa

in un sospiro che dura

e si incarna nel ringhio

della vecchia bestia

abbattuta rediviva

Nella lingua che lecca e sutura

l’abiura delle parole

nella recidiva di un errore

Se il toro daltonico confonde

Il sangue col cuore

attacca

muore

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cattedrale

Quando te ne sei andata da Milano, in una notte il vento aveva divelto gli alberi, gli alberi si erano abbattuti sulle auto, le lamiere delle macchine avevano ostruito le strade. Non era ancora agosto. La città si sarebbe svuotata alla spicciolata nei weekend successivi, a partire da questo.

È quasi agosto e continui a svegliarti alle 7. Col tuo bioritmo cocciuto troverai un compromesso, forse, pochi giorni prima di tornare. Hai sempre ostracizzato la te crepata di stanchezza che vorrebbe continuare a sognare fino alle 11 sogni in cui sfrecciano decappottabili verde oliva su strade che non esistono, l’hai esiliata da anni per una serie grigia di motivi che hanno tutti a che fare col senso del dovere e con un certo modo adulto di stare al mondo. Hai la FoMo del mattino.

È che però alle 7 di mattina in vacanza lontano dalla città non può e non deve accadere niente. Il sole è sorto da poco – non un grande elemento di novità – e le cicale hanno ripreso a frinire in un morbido ronzio collettivo a cui ti sei abituata. Dicono che quest’estate ce n’è più del solito. Vuoi sapere perché – figurati – così scopri dall’Agi che il numero di molti insetti, cicale comprese, aumenta in proporzione alle temperature, e che più fa caldo più forte cantano le cicale. Cantano solo i cicali maschi, in realtà, che con l’afa tendono rumorosamente i muscoli dell’addome per invitare le cicale femmine all’accoppiamento.

È una domenica mattina di mezza estate e sei circondata da insetti che vibrano dalla voglia di scopare.

Leggi qualche altra notizia correlata che finirà nel paniere degli argomenti buoni da estrarre la sera a cena davanti a persone che non ti interesseranno affatto, e a cui forse interesserai tu con la solita curiosa superficialità per quel tuo piccolo talento nel riuscire a entrare nelle cose, specularci e poi restituirle un po’ più succose di prima.

Guardi una cicala periodica a grandezza naturale in 3d: sembra l’incrocio tra una mosca e un bacarozzo.

Ci vuole uno sforzo di immaginazione subanimale per capire come una cicala periodica maschio possa essere sessualmente appetibile agli occhi rossi di una cicala periodica femmina, eppure ti sembra di capirlo. Di giorno si capisce solo ciò che non ha bisogno di essere capito.

Non c’è niente, di te e del mondo, che tu abbia davvero afferrato o edificato prima del buio.

Hai capito la fame, e il senso di tutto ciò che avresti fatto dopo, all’undicesimo giorno di sciopero dal cibo. Di giorno filava tutto liscio, di notte le tenaglie ti soffocavano lo stomaco e riaprivi gli occhi ogni mezz’ora. Potevi mangiare, le tenaglie ti stavano dicendo che dovevi, ma non avresti capito un cazzo.

La morte l’hai capita un giovedì di dicembre inoltrato. Erano le due, tuo padre aveva appena smesso di respirare.

Non c’è niente che tu abbia capito senza un atto lacerante, mai.

Il desiderio l’avevi incontrato qualche anno prima: una pietra angolare posata in un’oasi notturna dentro di te (che è sempre lì, dietro lo sterno) sulla quale hai edificato una cattedrale immensa. In quella dimora delle possibilità, della fantasia e del sovrumano hai eretto la miglior versione di te stessa e lasciato entrare solo quelli che avevi indicato come eletti. Quando ti sei sentita depredata dagli eletti hai sbarrato la porta, ti ci sei chiusa dentro seduta al buio a braccia incrociate come un guardiano bambino e burbero in un silenzioso atto di rivolta.

Lei l’hai capita di giorno solo quando se n’è andata, senza depredare e senza salutare. Un silenzioso atto di rivolta che ha mandato in frantumi l’atto originario con forza contraria, svelandone un nucleo ottuso e sordo. Pensavi di aver ascoltato e capito tutto, ti era sfuggito il centro.

L’avevi capita di notte, la prima volta, quell’unica volta in cui hai socchiuso l’ingresso della cattedrale. Erano le 4 e sugli lcd alle pareti andavano in loop porno anni ‘90 con un improbabile Luigi Einaudi remixato in sottofondo. Più che una cattedrale sembrava un sex club. Affondato nella similpelle sudicia del divanetto all’angolo un uomo-cicala si stava facendo fare un pompino, emettendo un mugolio cadenzato e triste. Nel buio livido di luci al neon voi stavate scopando da ore senza nemmeno sfiorarvi, mentre tutti altri intorno si toccavano senza riuscire a scopare.

Era un barlume di sacralità nel tempio del profano, la costruzione della complessa dicotomia del desiderio e del bene in mezzo a uomini che avevano smesso di desiderare.

Il vento non aveva divelto gli alberi, gli alberi non si erano abbattuti sulle auto, le lamiere non avevano ostruito le strade. Era solo vento, e tu la stupida che correva a casa.

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non come i polinesiani

900 e qualcosa anni fa i marinai polinesiani – che non sapevano di essere esploratori, prima ancora che navigatori – percorrevano lunghissime – e non sapevano nemmeno quanto fossero lunghissime – distanze in canoa, a volte morendo di sventura o stenti, altre spedendo per autostrada genetica ai propri discendenti i frutti casuali e esperienziali dei viaggi che avevano avuto la fortuna di raccontare.

Tu dici hai già una terra, è la tua, forse soffri per nutrirti ma in fondo ti sei adattato con la dignità atavica che si confà agli uomini dell’epoca: ai bisogni di base devono corrispondere soluzioni altrettanto basilari ed efficaci, è la piramide di Maslow su cui si basa la tua intera sopravvivenza anche se le piramidi in effetti non le hai mai viste, non sai proprio che esistano e comunque non potresti mai raggiungerle con un’imbarcazione senza motore (il motore verrà inventato 800 e qualcosa anni più tardi).

Dicevamo: sei un polinesiano, hai la tua piramide, che non è una piramide ma più un’ellissi dai contorni irregolari, forse un atollo impervio, forse una lingua di terra affacciata su uno specchio d’acqua abbacinante di giorno, di notte una distesa di pece infinita all’occhio umano cioè il tuo.

Non sai di essere un umano ma sai cosa l’umano che non sai di essere può: l’umano può sentire.

E all’umano la terra non basta, vuole il mare.

Allora, senza alcun tipo di strumentazione – strumentazione che conoscerai 900 anni dopo – tu, piccolo umano polinesiano, apprendi presto a stenderti (il corpo supino, i sensi spalancati) su una canoa costruita con mezzi di fortuna: tronchi divelti dalla burrasca e poi levigati in bonaccia dalle maree, pezzi di legno incastrati in modo che la gravità dell’acqua, quando entra, non li affondi (non conosci ancora il concetto di gravità, ma conosci l’azione della gravità sulle cose che tocchi). Vedi i punti luminosi sopra di te – forse sai già che sono stelle senza sapere di cosa sono fatte le stelle? meglio così – e senti l’incresparsi dell’acqua intorno, il suo diverso modularsi a seconda degli ostacoli che attraversa e supera. Quando ti spingono al largo impari presto a riconoscere la differenza delle increspature. Quella violenta, in mare aperto; la morbida, quando ti avvicini alla baia. Non ti serve leggerlo, lo senti e quindi lo sai: è la ricorsività della natura a marchiarti, e guardando i marchi sai cosa fare. Sempre. Alla fine tu o un tuo parente arrivate alle Fiji.

Campioni del mondo, senza ancora mondiali di calcio.

È sempre affascinante raccontare queste storielle di tribù lontane nel tempo che a un certo punto della storia per una combinazione di fato e incoscienza imparano a fare qualcosa che tu vorresti poter calare sulla tua vita forzando la metafora e pure la storia. A volte potresti sentirti un polinesiano, persino. E invece non lo sei: i tuoi confini sono regolari, spesso tracciati con una squadra, i bisogni che ti pungolano non sono mai primari, secoli e privilegi di distanza fanno di te un essere umano troppo umano che ha perso i sensi. Quando ti stendi su una barca ricordi il privilegio e guardi le stelle con un malcelato senso di colpa, intravedi la galassia materiale e pericolosa in cui sei immerso, scopri a 33 anni e qualcosa che le cicale smettono di cantare alle 21 mentre tu non smetti di rompere il cazzo mai – sei peggio dei grilli che fanno il controcanto ribelle e stonato alle 21:30 – confondi gli avvicinamenti per arrembaggi pirati e le increspature generate dagli atolli per burrasche da cui metterti in salvo. Scappi a riva, ma non è la riva giusta.

Ti sei sempre sentito un polinesiano superstite e scopri nel 2023 che sei solo una testa di cazzo che accoglie a bordo i pirati e si allontana a remi dagli atolli.

Rimettiti sulla canoa e continua a fissare le stelle con gli occhi feriti a morte fino a che non faranno più male e non sarà la morte.

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Fa’ ciò che ami. Ma anche no.

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Riflessione direi “necessaria” uscita su due Internazionali fa che disintegra il mantra del fa’ ciò che ami. Astenersi fan di Osho.

Pdf –> Il lavoro che ami è una trappola, di Miya Tokumitsu (pubblicato originariamente da Jacobin, qui)

 

“Incoraggiandoci a restare concentrati su noi stessi e sulla nostra felicità individuale, il Do what you love ci distrae dalle condizioni di lavoro degli altri e al tempo stesso conferma le nostre scelte, sollevandoci da qualsiasi responsabilità verso tutti coloro che lavorano anche senza amare quello che fanno. E’ la stretta di mano segreta dei privilegiati e una visione del mondo che maschera il suo elitarismo da nobile aspirazione a migliorare se stessi.
[…]
Se crediamo che lavorare come imprenditore nella Silicon Valley o pubblicista in un museo o come ricercatore in un istituto sia essenziale per essere persone autentiche -in pratica, per amare noi stessi- cosa crediamo delle vite interiori e delle speranze di quelli che puliscono le stanze d’albergo e riforniscono gli scaffali di un grande magazzino? La risposta è: niente.”

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La fiaba di Antonio Moresco

Dalla centotreesima pagina di Fiaba d’Amore, (Libellule Mondadori, 2014). Il colombo di Moresco poggia le sue zampette sul ballatoio della meravigliosa ragazza amata, ruota gli occhi da colombo, e parla:

“Che pena questa vita…” si diceva il colombo mentre volava molto in alto nel cielo nero che c’è tra la vita e la morte, battendo al sua ala ferita sopra la città illuminata dei vivi e poi sopra quella sterminata dei morti. “Che pena tutto questo dolore dei vivi e anche dei morti, tutte queste persone che si cercano e non si trovano, che pena tutto questo impossibile amore… Ma allora perché si cercano, se non si trovano? Ma allora perché si prendono gioco gli uni degli altri, perché si fanno del male, perché si feriscono, perché si lasciano, se poi devono continuare a cercarsi per non trovarsi? Ma allora perché certe volte si trovano, se non posso trovarsi e possono solo cercarsi?
Perché tutto questo? Solo perché sono così infinitamente soli che hanno bisogno di guardarsi almeno dentro uno specchio? Solo perché devono riprodurre altre donne e altri uomini infinitamente soli che si cercano e che non si trovano? Come sono soli gli uomini! Come sono sole le donne!”

Fine, più o meno.

Antonio Moresco Fiaba d'amore

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L’amore non ha confini, Sorrentino nemmeno

– Io oggi parto per sempre. T’ho scritto una poesia, l’ultima.
– Leggimela.
Amore, masturbami col mappamondo, voglio venire sul Marocco! Sono generoso, voglio fare del volontariato. La risolvo io l’aridità desertica del Sahara. Attento amore quanto spingi, potrei inondare il Nilo, sarebbe una strage… Ho distrutto tutti i campi coltivati. È proprio vero, l’amore non ha confini.

Digressione
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Il rumore del mare. Il silenzio della provincia, la nebbia, la bellezza della provincia.
Certe discrasie ti ammazzano sempre, non ci si abitua mai. Uno pensa di abituarsi. E pensa che ti ripensa, l’abitudine diventa meta-abitudine, che fa brutto solo a dirlo, figuriamoci a pensarlo e ripensarlo.

Io, ci sono delle cose che per quanto le penso te le elenco:

  • Perché la gente è felice?
  • Qual è per questa gente, se c’è, l’equazione vincente tra i pur numerosi ma futili motivi di felicità e la mostruosità della vita?
  • In quanti salotti giapponesi compariamo nello sfondo delle foto di viaggio? E cosa penseranno di noi, vedendoci, amici e parenti dei musi gialli in questione?
  • Come sarebbe andata se tu non te ne fossi andata?
  • Come, se io fossi rimasta?

Oggi, più del solito, risposte a vuoto tra cocci di Pandora. Mi sento come quando, come quando non hai similitudini. Mi sento senza di te.
Tornando al discorso delle abitudini, che poi pare uno lo lasci lì appeso per vagheggiare velleità letterarie, e invece sono solo una fotonica imbecille che da una vita si caga sotto di scegliere perché per tutta la vita, fuga a parte, l’opzione era apparsa unica:
ho fatto una scelta sì, che io sia viva non vuol dire fosse quella giusta.

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Emivita

Quando esco dal portone la guardo sempre. I rami del susino coprono per metà la facciata della tua casa. Si vede bene il parcheggio davanti ai garage, una porzione di giardino, la porta-finestra della camera più piccola, si immagina il resto. Gli impiegati del comune vengono ogni tre/quattro mesi a sfrondare la pianta, allora la vista ha una mancanza in meno, spunta la veranda pistacchio della cucina. Mi manca parlare con te, non faccio fatica ad ammetterlo, sempre. Sempre mi sento terribilmente stronza, e triste.

L’ultima volta che ho pianto per un libro avevo sedici anni. “Non ti muovere”, Mazzantini. Nello stesso periodo lessi “Le particelle elementari”, mi aveva lasciato piuttosto indifferente è l’unica cosa che ricordo. Vivevo la mia prima storia d’amore e prevedevo le prossime. Quello di Houellebecq è uno dei tanti libri che ho perso in qualche trasloco. Le scarpette rosse sul viale della clinica invece le vedo ancora, vedo ancora le lacrime e il senso fluttuante della perdita e della morte degli altri. Mi interessavano le storie, e delle storie le immagini, non la letterarietà. Mi piaceva, la Mazzantini. Provavo pietà per quell’uomo che tradiva la moglie, anzi gli volevo bene davvero, era la personificazione di tutta l’infelicità del mondo, quindi praticava il male.
La mia prima storia d’amore finì perché non cancellavo le mail, quelle che mandavo ad un’altra. Avevo da poco scoperto che mi piacevano le donne e ritenevo lecito potessero piacermene tante contemporaneamente, ai tempi una in particolare che mi regalava bottiglie di vino rosso dal nome esotico, Marina Cvetic. Scopavamo in macchina all’uscita del casello autostradale, la sera mi mandava mail piene di sentimento che non cestinavo per vanità e alle quali rispondevo allo stesso modo, ma senza alcun sentimento. Le mail segrete durarono poco. Mi disperai spergiurando di non tradire più. Presto dimenticai lei e la promessa.
A sedici anni sei già quello che diventerai: io volevo conoscere per annientarmi e tu volevi divenire una donna perfetta. Lo eri. Ne avevamo tredici quando ti guardavo passare per i corridoi tra una lezione e l’altra e mi dicevo smettila. A quattordici ti amavo follemente, mi facevo bastare il tuo volermi bene, ma non era vero: ti ho odiata. Sedici, e non sapevo quasi più niente di te. Avevo un’intera vita davanti.
Qualche settimana fa ho scoperto che Marina Cvetic è la moglie del produttore vitivinicolo, ho sorriso. Non sapevo apprezzare i vini. A sedici anni non bevevo, prendevo sbronze atomiche. Di solito rhum e vodka alla pesca, mai più toccati. Tempo dopo le sbornie non sarebbero bastate, e dopo i vent’anni non sarebbe bastato il resto. All’eccitazione dello sballo, l’assuefazione sostituisce la perizia empiristica: ti cali qualcosa, temporeggi, ti annoi, calcoli l’emivita della sostanza (valore importantissimo) e quando comincia l’effetto passi alla catalogazione di tutte le paranoie sepolte appena riaffiorate sottoforma di angeli deformi, animali mitologici, o se hai preso una sòla un cazzo di niente. Poi, a seconda della concentrazione anfetaminica, ci si addormenta sfatti oppure ci si gira nel letto come una fettina panata e oleosa per tutta la notte.
Ho finito il terzultimo capitolo delle Particelle elementari ieri, con gli occhi umidi. Per me, non per Annabelle che muore. Ecco cosa deve essere la vanità, il narcisismo: credere che il protagonista sia sempre tu, penso, che la gravità del mondo risieda nel baricentro delle proprie pulsioni e qualsiasi cosa succeda 6 miliardi di persone saranno comunque attirate verso l’irresistibile polo della tua persuasione, un buco nero rivestito di lustrini rosa. Talvolta penso anche alla mia infedeltà psichica. Il suo incremento è direttamente proporzionale alla riflessione per arginarla o almeno comprenderla. Non ho alcuna risposta definitiva. Per di più, entrambe non portano da nessuna parte.

Still life of DNA Certe volte mi sono anche azzardata a pensare che sia stata tutta tua la colpa, il germe di quel disfacimento morale iniziato in un momento indefinito della mia adolescenza e protrattosi a colpa perpetua. Io volevo te, tu non potevi volere me, semplice come nei libri: disfatta, tragedia, condanna a morte, epilogo. Nessuno avrebbe immaginato che sarebbe potuta andare molto peggio. Che ci saremmo sentite, a tratti, due buone amiche a relativa distanza impegnate ogni due settimane al massimo tre a custodire un pezzo di vita tutto sommato felice, perché andata. Io avrei collezionato donne con la stessa urgenza disperata di chi ha una scadenza di morte e dilapida ogni risparmio fino al giorno in cui per magia continuerà a vivere, tu non mi conoscevi più. Che poi mi avresti amata, nessuno poteva saperlo, e io mi sarei rifiutata di farlo, malata cronica di passato, come una bambina cresciuta incontra la madre da cui fu rifiutata e a sua volta la rifiuta, la maltratta, compie l’incesto e la umilia. Si può fingere di non sapere che l’amore è un silenzioso ritorno all’utero, alle origini della vita, quando tutto è solo inizio eterno senza tempo. Ma io era l’unica cosa che sapevo. Ho rifiutato me e mandato indietro te, lì sulla collina di una scuola dalla quale ancora ridi senza amore, senza futuro,  sei ancora perfetta e bellissima. Non ti ho capita, ma non ho amato nessun altro. Retrocedi di dieci anni e stai ferma per tutta la vita, pescava la carta dei vigliacchi. Era già tutto scritto, per tutti la fine scrive gli inizi già prima che comincino. Non è mai possibile una nuova vita, un nuovo inizio, la probabilità di rimanere illesi al tempo e al suo determinismo spietato equivale a zero, non a due. Eppure.
Quando esco di casa guardo la tua, sempre. Oggi ho pensato che l’emivita dell’amore non esiste, quindi è eterno.

“Per consentire la replicazione, due eliche che compongono la molecola del dna si separano per poi attirare, ciascuna verso di sé, dei nucleotidi supplementari. Quello della separazione è un momento pericoloso, durante il quale possono facilmente intervenire mutazioni incontrollabili, quasi sempre nefaste.”

Michel Houellebecq, Le particelle elementari

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Venti poesie d’amore a Ladyhawke

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Ecco, allora: premettendo che se Siti, Arbasino e Busi fossero morti lui sarebbe il miglior italiano vivente, e visto che Siti è ormai un malato terminale di civismo degenerativo (quanto ci mancano i pompini lirici di Scuola di Nudo, Walter), Arbasino ha sbarrato il portone della sua torre d’avorio e Busi si è rincoglionito, possiamo pure quasi affermare o almeno supporre che lo sia.

Certo, Michele Mari pecca nelle lunghe distanze, alla centesima pagina le ossessioni arrancano sul già detto, l’evanescenza dei suoi fantasmi dilegua nella maniera, l’accademismo attenta la poesia, ma vabbè. A me fa tanto piangere e ridere. Perché quando i fantasmi e le ossessioni finiscono nei libri continuano nella vita, o viceversa, e ancora e sempre viceversa, per garantire ai posteri l’osmosi di fatti e parole iniziata col primo verso di Onan. Massa solare permettendo, si viceverseranno per altri 5 miliardi di anni, e Mari resterà un intermediario valido del ventunesimo secolo.
Delle Cento poesie d’amore a Ladyhawke (Einaudi, 2007) ve ne metto qui sotto 20, selezionate non in base a giudizi di valore, ma un po’ a casaccio e un po’ in ottemperanza al regolamento della Siae. Copiare un quinto dell’opera è legale, è illegale voi non la leggiate tutta.

La fiaba degli amanti
cui un maleficio tolse
d’incontrarsi
(donna di notte lei
e con la luce falco
lui con la luce uomo
e nottetempo lupo)
ci piacque tanto che per un bel pezzo
ci siamo firmati Knightwolf e Ladyhawke
finché capimmo
l’inutilità della speranza di ritrovarci insieme
nell’umano
il nostro più ambizioso traguardo
essendo di confondere
il pelo con le piume

 . . .

Non piangere sul latte versato
verrà di notte il lupo
a leccarlo
perché il lupo è vago
delle cose perse

. . .

(Come se un lupo
fosse mai uscito indenne da una fiaba
come se in ogni falco
non si ripetesse degli Alberighi
l’antico scelo)

. . .

Fra il mulino bianco
e gli anelli di Saturno
la tua scelta era scontata

Ma non immaginerai mai
quanta farina
possono macinare quegli anelli

. . .

Ti cercherò sempre
sperando di non trovarti mai
mi hai detto all’ultimo congedo

Non ti cercherò mai
sperando sempre di trovarti
ti ho risposto

Al momento l’arguzia speculare
fu sublime
ma ogni giorno che passa
si rinsalda in me
un unico commento
e il commento dice
due imbecilli

. . .

Nel cuore sì
nella vita no

Presumo che per dirlo
ti sei già procurata
un bisturi
un barattolo
e due litri di formalina

. . .

Nella mia testa
c’è sempre stata una stanza vuota per te
quante volte ci ho portato dei fiori
quante volte l’ho difesa dai mostri

Adesso ci abito io
e i mostri sono entrati con me

. . .

Tu non ricordi
ma in un tempo
così lontano che non sembra stato
ci siamo dondolati su un’altalena sola

Che non finisse mai quel dondolìo
fu l’unica preghiera in senso stretto
che in tutta la mia vita io abbia mai levato al cielo.

. . .

Ogni volta che ci incontriamo
studio l’incanto per portarti via
ma ogni volta
ti giri su te stessa
e fai ritorno al tuo confortevole averno
Euridice che per ripetere i tuoi passi
non hai bisogno
della dabbenaggine di Orfeo

. . .

Amor ch’a nulla amato amar perdona
sempre suonommi assioma nauseabondo

Or s’è avverato
ma tale è il suo ritardo
ch’è come se nel punto di mia morte
dopo una vita di identiche giocate
venissero a informarmi
ch’è uscito finalmente il 10 000
sulla ruota di Alpha Centauri

. . .

Il tuo silenzio
dici
è pieno di me

Così so
come si sentono i morti
pensati dai vivi.

. . .

Il nostro fidanzamento è morto
adesso lo imbalsamo
poi mi iscrivo a un corso da ventriloquo
e come Norman Bates
apro un motel

. . .

Coincidere con chi si è diventati
credendo sia saggezza
è il più facile dei tradimenti
perché il suo castigo è nella pace

. . .

Ho messo quel che resta
del nostro fidanzamento
in una piccola bara bianca
che ho interrato al campo

Mentre mi allontanavo
con la vanga in spalla
ho udito dalle zolle
una vocina
ma mi avevi proibito di voltarmi
e non mi sono voltato.

Passaci tu però
così impazzisci.

. . .

Tertium dabatur
e sarebbe stato vivere
sfiorandoci

. . .

Avendo la testa montata all’indietro
non so cosa mi aspetta
ma quando cadrò nel vuoto
starò certamente ammirando
la sinossi di tutti i nostri incontri

. . .

Ti ho amata sempre nel silenzio
contando sull’ingombro
di quell’amore
e di quel silenzio
ed anche quando poi ci siamo scritti
la profilassi guidava la mia mano
perché ogni senso
fosse soltanto negli spazi bianchi
e nondimeno mi sentivo osceno
come se la più ermetica allusione
grondasse la bava del questuante.
Mai in ogni caso dubitai
che tu sapessi
finché scoprimmo insieme
di esser vissuti vent’anni nell’errore
tu ignorando
io presumendo
e allora in un punto è stato chiaro
che solo al muto
il battito del cuore
è rimbombante

. . .

Sei venuta a vedere per la prima volta
l’università dove insegno e dove ho studiato
il giorno stesso in cui mi hai detto addio

Non altrimenti l’assassino
fruga nel portafoglio della vittima
per saperle un nome
che ne renda più domestico
il fantasma

. . .

Dimmi
è stata l’ora legale a fregarmi
è stato quel furto
nella sostanza del tempo
a restaurare l’ora dei mariti
spedendo gli amanti
a bruciare nel sole?

. . .

Verrà la morte e avrà i miei occhi
ma dentro
ci troverà i tuoi

.

 

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Titolo opzionale, dice wordpress

Stamattina ho cercato qualcosa da dire e non l’ho trovato. C’era un tempo in cui questa era la norma, non l’eccezione di un martedì di merda.

Gli avvenimenti di quel gennaio ancor oggi mi tornano in mente in modo confuso, sparsi e intrecciati: di molte cose non ricordo più niente, di altre non so ricostruirne l’origine, e soprattutto mi sfuggono del tutto i passaggi, gli intervalli tra un incontro e l’altro, le soste, i pensieri concepiti nelle attese, com’ero fisicamente, cosa mangiavo, quanti minuti ci mettevo ad addormentarmi, roba così. Niente è ordinato nella memoria, tutto è stato lasciato al caso, all’ “ultima volta che”, al “per ora mettiamolo lì”.
Come se tutto si fosse improvvisamente rallentato: ogni giornata era un orologio con le batterie scariche che sembrava sempre lì lì per fermarsi e non lo faceva mai.
Sorridevo al giornalaio ma non era lo stesso che ieri diceva: “come va?”, “ti metto da parte l’allegato di sabato”, “sai, mia moglie non sta bene”. Era sparita la cortesia, la messinscena, il palchetto del volemose bbene. Lui era i due euro e il resto, se capitava. E come lui tanti.

Giocavo quotidianamente con piccoli fantasmi, riflessi di attimi costruiti come persone mie, appartenevano alla mia vita, erano stati lì per me. Io avevo fantasticato sulla loro umanità e lì avevo fatti buoni o cattivi, felici o infelici partendo da impressioni saltuarie: era dipeso tutto dal mio umore, dalla mia disponibilità a condividere. Finita quella, era finito tutto. La gente era gente e basta, un sottofondo inutile, generalizzato di lamentazioni a papera e sorrisi muscolari a reazione condizionata. Erano stati personaggi della mia fantasia, ma ora non mi appartenevano più, non sapevo più inventarmeli.
Così con gli amici. Li avevo abbandonati uno alla volta, senza dirlo, senza dichiararlo. Avevo lasciato che tutto decantasse, che cessassero gli incontri, si interrompessero i saluti. Qualcuno era stato trattato malamente, qualcun altro con tenerezza, ma sempre e comunque con la ferma malinconia dell’abbandono.
Ai curiosi rispondevo a monosillabi e, d’altronde, non avevo risposte migliori. Non si trattava, per dire, solo di un amore perduto, questo no, non dovevano pensarlo, perché era offensivo, riduttivo, perché non era così.
Ero, mi sentivo, in un punto qualunque dell’universo, senza sapere di terre, luoghi, pianeti, senza avvertire la benché minima scia di un’onda radio da seguire.
Arrivai presto a scoprire l’inutilità degli occhi, delle mani, e a non fargli arrivare più ordini; provai il pensiero perdente, la metodica sconfitta dei ricordi. Negai, riviste in luce nuova, i giorni più belli, negai gli entusiasmi, tolsi l’alone magico alle feste, agli incontri: mi rimase la stupidità delle attese immotivate, il vuoto insomma, a cui diamo senso noi soli, senso e figura, per non morirne ubriachi.

Quando l’orologio riprese a scandire l’orario giusto, l’ora eterna dell’uomo, capii che, anche a volerlo, non sarei più riuscita a coltivare la mia apatia. Me la stanavano tutti; per caso, dicevano, per coincidenza, niente di personale. Stavo riprendendo colore contro la mia volontà. La malinconia non era più quella bella, grassa e dolorosa di mesi prima, ma quasi di maniera. Mi accorsi più volte che dovevo richiamarla, evocarla di proposito, da sola non veniva più. Per mesi avevo odiato le cose com’erano prima e ora odiavo non trovarle più com’erano prima.

Dopotutto mi sembrava un miracolo che fossimo riuscite a sopravvivere senza capirci. E invece era soltanto una visione. Avevo riciclato con te la mia dannata fantasia.

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dieci

Ho visto quel m’aspettava
chiodi per piccioni, un muro fumo
la sigaretta che montava cerchi
nel blu di primavera tra la bruma

Sovrumana impresa di sottecchi
guardava me nelle sue attese
mentre cercavo *dio
su per le vagine, beccai mai niente
*io

Con questo fanno dieci
tenesse pure il resto,
non è mesto il ricordo
di quando

amò l’attesa, gli anni ed i piccioni:
trovò se stessa
sola. Fu il mio un vagìto morto
tra le sue stagioni.

* L’asterisco indica una forma ricostruita e non documentata, di cui si presuppone l’esistenza.

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E da domani

E da domani?
Sai cosa – e da domani – è solo questa la domanda. Più che un problema una domanda. Come si colma il vuoto dei giorni a venire. E in quale modo si dimentica la felicità non pienamente còlta degli anni passati.
– Io non ho uno ieri. Non lo so – dici, amico. Aggiungi che l’unica volta che hai avuto uno ieri da innamorato, all’indomani di quella volta percorrevi la A24 da casello a casello piangendo un rifiuto. Quanti catini  riempirebbero le lacrime che hanno percorso quella strada?
Anzi no, dicevamo,

– Mi dai un goccio di birra?
– Ho i bicchieri a fiori però.
– Che mi frega.
– Ho solo quelli.

Mi preoccupa il domani perché ho giocato con il tempo, amico mio. È che nel tempo e nel frattempo ci sono capitate loro. Cosa dovevo fare io, non amarle?, che cattiveria.
Una era il passato e che passato, dieci anni di occhi azzurri e ventricoli ansimanti. Verdi, amavo quegli occhi che diventavano verdi quando il sole si nascondeva. La adoravo anche all’alba, e tornavano azzurri.
L’altra perché assomigliava al futuro. E non mi amava. Anelavo ad un futuro che non voleva me, insomma. È la metafora esistenziale dei giovani nel 2013 dici, e che ne so io.
Sì, ok, le ho amate nello stesso tempo, ma cosa importa, il tempo ce lo siamo inventati noi per darci un senso. Credi ancora che l’amore abbia un senso? Certo che no, tu sei sveglio.

– È terribile ‘sto bicchiere, quelli del San Michele sono più chic.
– Sai qual è il problema, più che una domanda un problema? Che non puoi mai leggere per la prima volta un libro che hai letto già.
– Già.

Caro amico vorrei regalare alla tua vita un incipit bello come quello bellissimo di tante righe dense e pur leggére con una sola virgola quella sì posso tieni eccola, ma per il resto non ne sono capace lo sai. Vorrei anch’io come lui, lo scrittore degli scrittori, aver sposato e  lasciato due mogli, poi adesso vivere felice con la terza, perché l’abbandono è coraggio.
La prima l’avrei sposata all’improvviso, te lo posso giurare, un giorno saremmo uscite da casa insieme su un’unica bicicletta. Forse sospinta da un momento di stupida cavalleria l’avrei fatta sedere sulla canna e bestemmiato ad ogni tendersi e flettersi di questo mio moscio quadricipite. Ma al ritorno avremmo pedalato di brutto – avrei pedalato, perché lei sorrideva e basta – e costeggiato tutto il lungomare vecchio fino al porto. Ci saremmo divertite a contare le palme rimaste indenni al punteruolo rosso e dopo secoli di scienza inutile avremmo provato, noi, che la terra è rotonda spiando sparire la Geneviève ad una certa altezza dell’orizzonte; il cielo prima verde, più in alto azzurro. Dalla cima del molo avremmo visto solo futuro, anche senza vederlo.

– È tardi, quando vuoi che vada dimmelo.
– Sì, te lo dico.

Che bello, amico, sapere che non dirai niente. Che bello senza dire nulla scegliere, avere coraggio. Sfidarsi: se me ne vado e scendo tutti gli scalini fino al portone prima che si spenga la luce delle scale accesa due minuti fa dal vicino, domani lei tornerà.
Ma io sono solo passato /quanto la amo/ E il passato è sempre il solito codardo passivo, si fa abbandonare, lui non fa niente di suo. Mica si muove mai.
Caro amico, vorrei che domani il riflesso dei miei capelli sciolti disegnasse quelle arpe gotiche sugli argini scarnificati del torrente Albula, che domani ci dessimo finalmente pace capendone il significato senza l’aiuto di google images.
Se chiudi gli occhi, guarda, anche questo Albula lercio è il Tennessee. L’Albula conduce presto al mare, puoi aprirli ora: ecco il mare sterminato, l’eterna scelta, la tentazione, la caduta e la redenzione. Eccoci, guardiamoci. Ma è davvero troppo tardi. La Geneviève l’hanno rottamata tre giorni fa, niente più mari per lei.
Ah, alla seconda moglie, te lo giuro, avrei detto addio con un
– Ciao, io allora vado.
Sì, effettivamente si è fatto tardi. I bicchieri coi fiori li cambio, promesso. A domani.

La domanda andava fatta così: se domani non ho più il passato?, e se domani non ho più me stessa? Dove lo metto quello che ora sento e ricordo, e che domani dimenticherò?
Solo tanti punti esclamativi a chiamarne sempre altri, un circolo vizioso che lei ha lasciato arresa e per disperazione. Quanto la amo, anche oggi che intuisco la sua vita solida dai finestrini del treno, la amo perché se domani sarà senza di me la sua vita sarà bella, come quella di tutti gli altri laggiù sulla terra, ferma e immobile, loro che rimangono solidi e ben piantati (hanno dimenticato, vero?) mentre la voce di una donna grassa annuncia la prossima stazione; non è casa mia.

Non soltanto ciò che ricordiamo, ma anche ciò che dimentichiamo ha una dimora. Forse è ammassato ai confini del mondo, l’oblio collettivo. Là, siamo noi.

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Digressione
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Quella casa. La abbatteranno prima o poi. Me lo hai promesso. Per il tempo che resterà così, disabitata e vuota, ti lascio un rimario futile e banale, corrispondenze stupide come solo i ricordi sanno essere.
Però, dicevi, c’è sempre un però. Stupide anche le congiunzioni avversative, separano prima i concetti e poi le persone. La grammatica è continua separazione, pausa, ricongiungimento, caos che sembra logica e invece è caos, un punto fermo per finire.
Non finisce niente, amore mio, le parole continuano anche quando il rumore finisce, quando tutto sembra silenzio di sottofondo ecco che si stanno formando le parole che lo romperanno. Il linguaggio è uguale alla vita, un ciclo continuo di perdite e conquiste, entrambe fittizie, punteggiature embrionali che esplodono e riempiono il mondo di silenzi e parole con cui lavoriamo, compriamo, facciamo l’amore, contrattiamo, ci insultiamo, con le parole in bocca ci moriamo. Discorso lungo.
Però, dicevamo, fin quando rimarrà in piedi, sarò io la custode della tua carcassa di cemento sulla collina, una volta piena di vita e di futuro.
In fondo, a pensarci bene, è la cosa che più ci somiglia.

Abbatteranno quella casa e il cuore
avrà il riposo immaginato sempre,
il cingolato scandirà le ore:
morte di una palazzina in novembre.
Le tapparelle cachi, le galline di tua nonna
i cactus di tua madre, tuo padre ancora
in viaggio, e quando torna.

Rifiuterai il ritorno, già diversa
lontana, in fase di abluzione
della tua Penelope dispersa
che di rimpianti farà cassa integrazione.

Si abbatterà sui cespugli di more
appassiti, la parete con le fotografie
il rovo attutirà il frastuono
a cassetti vuoti delle mie

Io, che due lustri son passati in fretta,
perdonerai, non so dimenticare
quel niente che mi teneva stretta
nell’infinito riflessivo lasciarti andare.

Tu donna, tu la prima, peccato bieco
Eva e Penelope eran la stessa troia
(Ulisse se l’è inventato un cieco);
se tesse nuove mele il boia 
Abbatteremo quella casa, amore:
sui calcinacci insieme balleremo gli anni
di chi si inganna a lungo e all’improvviso muore.

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Un amore

Compiti per tutti: non leggete mai Dino Buzzati prima di andare a dormire.
Se proprio perché siete degli idioti vi dovesse capitare, la mattina dopo scappate dal letto del misfatto, lavatevi il viso con l’acqua gelida di gennaio e quello che vi ha fatto più male, fate come me, ricopiatelo. A penna, a macchina, battetelo sulla tastiera, ripetetelo a memoria sbagliandolo. Insomma, fate qualcosa, qualsiasi cosa, ma esorcizzatelo.
Vogliate scusarmi, io non ho copiato tutto tutto, voi potete fare di meglio. Giustificate queste espunzioni con la pigrizia nella copiatura, basterà a capirne il senso. I dettagli narrativi e didascalici – che pure mi ricordano qualcuno se ci penso, e almeno per i minuti che restano a queste parole non vorrei pensarci – sono insiti in ciascuno di noi, in forme apparentemente diverse.
Sarebbe poi un così grande sgarbo agli animi inquieti e innamorati, a me, a voi, dire tutto, come se tutto si potesse dire, che ho preferito evitare.
Allora ho eliminato le scogliere, la campagna della periferia milanese, il nome di lei (Laide, ndr), qualche patema d’animo di troppo, le descrizioni accessorie e fondamentali, ho espunto tutto il resto del libro, Un amore (Arnoldo Mondadori editore, 1963), considerato dagli eruditi un insolito nella produzione di Buzzati.
Forse, in effetti, questa vicenda nabokoviana non è un romanzo ma una scheggia di luce, è un raudo inesploso che nelle pagine deflagra al rallentatore, un segreto confessato una volta da sbronzi e poi seppellito. Per sempre.
In fondo, qui, per i non eruditi che ancora si ostinano a imparare l’amore, per i puri, c’è già tutto quello che basta: Antonio Dorigo (di Dorigo ne è pieno il mondo) che spinge il pedale sull’acceleratore verso il baratro felice di un non amore e la corsa verso Laide, ché anche lei abita le donne di ogni dove, incolpevoli stupide ninfette indifferenti quando il cuore è il malato organo degli altri.
Ho già detto troppo. È che qui c’è l’allusione più bella a quel ciclico e imprevedibile scambio di ruoli che è l’avvicendarsi dei rapporti umani. Troppo, sì. Troppo uguali sempre, noi, uguali l’inizio, la fine, le donne, gli uomini, le stesse storie per tutti, il dolore, e nel dolore la gioia, l’amore, la morte, l’amore, per sempre.

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Un amore, Dino Buzzati, pagg. 108/114

“Svegliarsi presto, per Antonio, è morte civile.
[…] Partì alle sei e mezzo. Trovò le strade vuote. Peccato che il cielo fosse grigio.
La sveglia alle sei, di per sé dolorosissima, fu una specie di meraviglia all’idea di lei che lo aspettava.

Ogni volta che il piede pressava sul pedale dell’acceleratore era uno spazio in meno che lo separava da lei.
[…] La campagna deserta, prati fumiganti di nebbia e in fondo lunghi schieramenti di pioppi altissimi a quinte successive che si perdevano nelle lontananze. Via via che lui correva, da una parte e dall’altra gli alberi ruotavano concentrandosi in folla verso l’estremità del rettilineo e poi sgranandosi di fianco, mentre altri, più lontani gli correvano avanti a rinserrarsi verso l’orizzonte; come se due immense piattaforme girassero in senso opposto una a destra, una a sinistra.
[…] Poi gli parve che nel loro moto, corrispondente in senso inverso allo spostamento della macchina, i filari dei pioppi intendessero dirgli una cosa. Sì, la fuga degli alberi – intreccio fluido e cangiante di prospettive in una duplice rotazione della campagna a perdita d’occhio – aveva assunto una speciale intensità di espressione come quando uno sta per parlare.
Lui correva, volava anzi in direzione dell’amore e pure gli alberi che scivolando al limite delle praterie, erano portati via da qualcosa più forte di loro. Ciascuno aveva una sua fisionomia, una forma speciale, una sagoma diversa. Ed erano tanti, migliaia e migliaia. Eppure una comune forza li trascinava nel gorgo. Tutti i pioppi della smisurata campagna fuggivano esattamente come lui ruotando in due vastissime ali ricurve.
Era uno spettacolo, nel solitario mattino, con la strada vuota dinanzi e i prati vuoti, le campagne vuote, non si vedeva un’anima, sembrava che, tranne lui, tutti si fossero dimenticati che esistesse quel pezzo di mondo. E lei era laggiù in fondo dietro l’ultimissimo sipario di alberi anzi molto più in là, probabilmente stava dormendo con la testa sprofondata nel cuscino, fra lista e lista delle tapparelle la luce del giorno nuovo penetrava nella stanza illuminando la massa dei suoi capelli neri, immota. Era sola?
Allora, egli all’improvviso capì il senso di quel naturale incantesimo. Di colpo egli capì ciò che tutta la natura gli diceva, capì il significato del mondo visibile allorché esso ci fa restare stupefatti. […] Tutta la vita era vissuto senza sospettarne la causa. Solo adesso, finalmente, si rendeva conto del segreto.
Un segreto molto semplice: l’amore. Tutto ciò che ci affascina nel mondo inanimato, i boschi, le pianure, i fiumi, le montagne, i mari, le valli, le steppe, di più, di più, le città, i palazzi, le pietre, di più, il cielo, i tramonti, le tempeste, di più, la neve, di più, la notte, le stelle, il vento, tutte queste cose, di per sé vuote e indifferenti, si caricano di significato umano perché, senza che noi lo sospettiamo, contengono un presentimento d’amore.
Quanto era stato stupido a non essersene mai accorto finora. Che interesse avrebbe una scogliera, una foresta, un rudere, se non vi fosse implicata una attesa? E attesa di che se non di lei, della creatura che ci potrebbe fare felici?
Dovunque c’era nascosto il pensiero inconfessato di lei, anche se non sapevamo neppure chi fosse.

[…] Se quando era ragazzo uno glielo avesse detto, e lui avesse potuto capire, ciononostante avrebbe sempre detto di no, che non era vero, per una forma di pudore. Così anche gli altri diranno di no, che è un’idiozia, che è retorica, romanticismo fuori tempo. Eppure, interrogati, non sapranno indicare altrimenti perché li commuove la burrasca marina o l’arco diroccato dei Cesari o la dondolante lanterna nel vicolo dei bassifondi. Mai confesseranno che in quelle scene c’è anche per loro il richiamo a un sogno d’amore, nonostante il disgusto che una simile espressione possa dare.
[…] Eppure se nei viaggi non ci fosse quel barlume romanzesco e inverosimile, non si muoverebbero da casa. Il vagabondare di frontiera in frontiera, di albergo in albergo, diventerebbe un supplizio.
E il fatto universale della poesia? Come mai tanti paesaggi, selve, giardini, spiagge, fiumi, alberi, crepuscoli nei versi della donna amata? Perché nella natura, i poeti, più ancora degli altri riconoscono il riferimento fatale. Le torri antiche, le nuvole, le cateratte, le enigmatiche tombe, il singhiozzo della risacca sullo scoglio, il piegarsi dei rami alla tempesta, la solitudine dei greti nel pomeriggio, tutto è un’indicazione precisa a lei, la donna nostra, che ci incenerirà.
Ogni cosa del mondo congiurando con le altre cose del mondo in complotto sapientissimo per promuovere la perpetuazione della specie.

Era un’intuizione così bella e geniale che in altre circostanze egli ne avrebbe avuto soddisfazione. Ma, proprio per la sua esattezza, oggi a lui procurava solamente dolore. L’espressione degli alberi fuggenti corrispondeva infatti alla condizione del suo amore; il quale era stolto e disperato. Egli correva in direzione di lei benché sapesse che laggiù lo aspettavano soltanto nuovi affanni, umiliazioni e lacrime. Ma lui correva a perdifiato ugualmente, il piede premuto con tutta la forza sul pedale, per la paura di perdere un minuto.
I pioppi della pianura, spostandosi processionalmente, a schiena curva, sembrava gli dicessero: fermati, uomo, fa’ dietro front, non pensare più a lei e seguici, non correre alla tua rovina. Noi ti condurremo al remoto paradiso degli alberi dove esiste soltanto benessere, canto di uccelli e pace d’animo. Non ostinarti.
Era così persuasivo il loro discorso che a un tratto egli fu preso da un turbamento interiore, si spostò sulla destra e si fermò.
Ma nello stesso istante si è fermato anche tutto il paesaggio intorno a perdita d’occhio e a lui dinanzi, in fondo alla deserta pista d’asfalto, il crocchio degli alberi rimane compatto e immobile né si scioglie più sgranandosi da una parte all’altra, i pioppi non sfuggono più, non gli dicono più fermati, non osano più dirgli niente perché capiscono che non c’è nulla da fare, gli alberi gli dicono sì è vero, laggiù in fondo, al sud, dove la strada finisce, c’è lei che aspetta per farti dannare, ma non importa, tanto!
Tanto, il sole è già alto, e noi non ti possiamo salvare.”

Ecco, è troppo.


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Per la donna che è in te, ovunque lei sia.

Scrivo a te
per  convogliare queste bulimìe di scrittura che non mi faranno mai vomitare un romanzo non dico geniale ma almeno coerente nel più banale degli sproloqui pieno zeppo di refusi e senza virgole giacché sono stufa delle pause qua è tutta una pausa ma vabbè
Scrivo a te
perché ho bisogno di un destinatario perché non riesco più a sopportare la mia stupida coinquilina e i suoi stupidi programmi televisivi e oggi è arrivato il suo stupido ragazzo da una qualche montagna qui vicino quantomeno oltre all’acqua marcia  per tutto il corridoio che cazzo ho dato lo straccio due ore fa c’ha portato cinque ceres una cassa di campari e tre coche light ma per fortuna la coca era per le altre ed io mi sono sacrificata
Scrivo a te
forse con queste parole starai meglio chissà come quando ti sentivi un po’ meno estranea a te stessa se leggevi Proust e ti riconoscevi nelle notti bianche di Dostoevskij  ma nessuno capiva e ti facevano battute sul candore delle notti che di sicuro non era nei libri semmai appiccicata a qualche specchio o alle schede dell’esselunga e tu dicevi che sì certo ovviamente lo sapevi mica eri idiota era anche quello ma proprio perché non riuscivi a dormire col naso tappato e sentivi il cuore che ti scoppiava e gli occhi stracolmi di basta con tutto questo l’unico modo per respirare fino all’alba era affidarsi alle pagine delle vite degli altri e sempre a te che da quando hai cambiato vita vai a dormire tardi lo stesso ma ti alzi all’aba e raramente ti chiedi che senso abbia svegliarsi presto se sprechi il tempo a pensare al passato
Scrivo a te
che avevi così tanta paura di rimanere sola e viceversa adesso è la solitudine ad avere il terrore di te e ha smesso ormai da tempo di considerarti  perché pure lei si sente asfissiata da quel tuo rincorrerla e misconoscerla subito dopo come fai con la gente che ami o meglio non ami e nemmeno tu ci credi scrivo dei tuoi saggi consigli quando agli altri predicavi di fermarsi in un punto preciso e godersi il momento e tu invece col cazzo che ti sei mai fermata un attimo hai fatto sempre appello a quello che più che un appello era un disperato bisogno di giustezza anzi di perfezione di compiutezza
Scrivo a te
non dovevi dimenticare la bambina che giocava in riva al mare ecco l’errore fatale non dovevi proprio lasciarla annegare solo perché volevi rinascere donna tanto alla fine dalle acque hai visto risorgere soltanto una fenice ogni giorno diversa ambiziosa apatica tossica tediosa abulica cristallina intelligentissima scema che poi s’assomigliavano tutte
e la vita sì l’hai cambiata ma ridaresti indietro anche questa
Scrivo a te
che le possibilità le hai avute e tante ne hai acciuffate con la puntualità dell’Eurostar Sbt/Mil quella notte in cui non ci salisti più perché lei t’aspettava e tu volevi farti aspettare come tutte le donne destinate all’eterno pentirsi ti sei fatta aspettare per anni mentre dentro di te il rimpianto meticolosamente costruiva un castello d’amore di sabbia dagli occhi blu che caro dopo tutti questi anni è ancora il tuo migliore amico immaginario il desiderio sempreverde il germe  proliferante della tua ossessione

Scrivo a te
perché chissà forse un giorno a forza di vomitare parole chissà forse prima di scrivere un romanzo che non scriverai forse nei labirinti del castello la perderai. Queste parole sono la promessa che solo allora ti ritroverai.

Vladimir Nabokov's interview

Vladimir Nabokov’s interview

 

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Disapprovare la pioggia

Non so come iniziare questo post.

Cerco un attacco e l’unico che mi risuona in testa fa “questa piazza è sporca, andate via.” E’ domenica, ma una domenica fa.
Il film, girando rapidamente al contrario, mi riporta davanti al caffè La Fontana, dove in vetrina, sotto un cartello che dice “friendly happy hour”, si riflettono le ombre di Francesca, Pierluigi, Marco, Antonio, un centinaio di persone in tutto.

Li vedo, due ore dopo, gli altri. Hanno parcheggiato in stazione, camminano per le fondamenta silenziose e quasi deserte di Via della Colonnetta, poi per un dedalo di stradette che li riporta imprevedutamente indietro, in Piazza Marconi. Il richiamo di cento froci è troppo allettante per resistergli.
Questa piazza è sporca, andate via” urlano venendo verso il bar. La loro audacia è troppo facile, troppo grossolana per intimidirci. Hanno stemmi anacronistici sulle magliette e facce come le nostre. Il film si interrompe quando arrivano le forze dell’ordine a tirar giù la saracinesca sull’ennesimo sopruso italico, chi può sgattaiola via e chi rimane l’indomani tace.

Parlano solo i titoli dei giornali: “Chieti, insulti e sassi contro i gay”, il Messaggero. “Aggressione omofoba a Chieti”, La Repubblica. “Sassi e bottiglie contro i gay allo Scalo”, il Centro.
I gay”: sembrano una specie protetta detta così, un’etnia esotica, mica un problema. Non è il momento per farne un dramma, dicono. Perché mentre parli di omosessualità la gente non arriva a fine mese… La crescita è importante, ma no, prima si deve uscire dalla crisi… Risolvere il problema del precariato sì, ma dopo la riforma del sistema elettorale… Il problema è questo, no, un altro… Il problema non è mai quello e alla fine l’Italia è lo stivale dei problemi irrisolti senza gerarchia in cui sempre e comunque la rivendicazione dei diritti è una richiesta inopportuna.

A Francis Maude sembrava un po’ inutile la disapprovazione dell’omosessualità, diceva che era come disapprovare la pioggia. Ma qui sono piovute pietre, ingiurie, spranghe, bottiglie, calci di pistola. Qui piove sulla dignità e sull’orgoglio e sui diritti. La paura delle ritorsioni ha inumidito il coraggio dei cinque feriti e domenica 3 giugno ora è soltanto la data dell’ennesima denuncia contro ignoti accatastata alla già cospicua pila di un polveroso ufficio di polizia dove un don Ciccio Ingravallo de noantri spulcia confuso le troppe – decisamente troppe – scartoffie burocratiche mentre veloce si propaga l’eco dei primi commenti a caldo:

Ve la siete cercata.

Prima vi auto-ghettizzate e poi vi sbattete in piazza.

Avete fatto una scelta ma non ne accettate le conseguenze.

Cosa vi aspettavate?

Negli anni i gay hanno costruito una realtà parallela a quella ufficiale, un underground amoroso in cui i ruoli si sono confusi per necessità di sopravvivenza e il mimetismo ha reso più rudi le donne e un po’ più donne gli uomini. Poi gli anni sono passati e accanto alle donne mascoline e agli uomini effeminati sono cresciuti esseri strani che non lo diresti mai, insospettabili esseri umani accomunati l’un l’altro esclusivamente dalla medesima preferenza sessuale. Ora coesistiamo, siamo in mezzo a voi, di qualcuno non lo direste mai e altri li riconoscereste a chilometri, facciamo lavori come i vostri, ci incontriamo al supermercato e alle poste, da quando hanno accertato che non trasmettiamo nessun virus potete anche stringerci la mano senza brutte smorfie.
Negli ultimi tempi vi siete affannati a ribadirci il concetto di famiglia, negato di poterne avere una, avete parlato di contronatura e amenità simili, inventato bibbie omofobe e cure per la malattia, ci avete licenziati, stuprati, malmenati, emarginati.
Noi ci siamo fatti forza, insieme, abbiamo in risposta inventato un mondo allegro e colorato nel quale l’amore non è una scelta, è. Posate i bastoni, prendete un libro. Abbassate la voce, abbiamo le orecchie stanche. Perchè quest’Italia l’avete sporcata voi e, se proprio non ve ne potete andare, almeno lasciateci soli.

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Antiche insonnie

È notte. È buio fuori, quindi è notte. Lei si è fatta la tisana, quella al finocchio. Depurativa, rilassante. Prima si è struccata, con cura, e mi piace… mi piace perché è l’unica, lei, che ancora lo fa con cura. Tutti gli altri cercano di tenersi il trucco addosso più che possono.
Sì, ma certo. È notte.
Si toglie i vestiti, lei, stancamente. Li appoggia alla sedia. Si volta verso di me. Tiene tra i denti uno sbadiglio. Poi senza sorriso, ma con dolcezza si gira verso di me.
“Perché non dormi?”
Perché non dormo?!
Mi risuona qualcosa dentro, quando me lo chiede, lei, e sarà quella campana di mezzanotte con la lingua di ferro, quella campana della chiesa del cimitero… sarà che, la notte, porca miseria la notte non finisce mica la mattina.
Ecco cosa, che non dormo.
Non dormo e basta. Mai sofferto d’insonnia io. Sono quella delle otto ore precise. Sempre dormito. Anzi, potessi sempre dormire fino a tardi, io… Eppure stasera non dormo.

Non dormo, non dormo perché mentre dormo succedono cose che non voglio che succedano. Non dormo perché mi sembra che tutti stiano dormendo, e non mi piace far parte del gregge. Un gregge fatto delle stesse pecore che dovrei contare per addormentarmi.
Non dormo perché la notte quella vera, nel suo silenzio, la notte è piena di pensieri, piena di parole che di giorno me le rubano i clacson. Non dormo perché i film più belli li fanno di notte, perché ho digerito male, perché ho di nuovo fame e vorrei teletrasportarmi al frigo. Non dormo, non dormo perché la notte più buia è il giorno che è appena finito, non dormo perché voglio sognare ad occhi aperti.
Non dormo perché da qualche parte un barbone ha freddo, un altro ha male ai piedi, un altro invece se la cerca, e decide di non tornare a casa.
Non dormo perché c’è chi la casa non se la può più permettere e non ha mai fatto il barbone, ma finirà per aver freddo, male ai piedi.
Non dormo perché il mio vicino di casa ha aperto un sito in cui vende le foto della sua ragazza nuda, e si vantano, che ci fa un sacco di soldi. Non dormo perché lei la considerano tutti un po’ mignotta, mentre invece le modelle del calendario Pirelli no. E forse hanno ragione.
Ecco. Non ho sonno perché sono fregata.

Non dormo, non dormo perché ho paura della paura degli altri.
Non dormo perché la gente conta più delle persone e se la gente si compra con trenta denari, le persone da sempre non si possono comprare.
Non dormo perché il moralismo è diventato rivoluzionario e l’estroversione conservatrice. Tutto è mischiato male. L’Italia è una ricetta con gli ingredienti giusti, ma nelle dosi sbagliate.
Non dormo perché è diventato eversivo pagare un biglietto dell’autobus, e quando lo paghi sono in due a odiarti: quelli che non l’hanno pagato, e quelli che te lo fanno pagare il doppio perché nessuno lo paga. Ma l’autobus non lo prendo più da un pezzo e allora dormo di più la mattina perché tanto con la macchina cinque euro cinque minuti e arrivo dove devo arrivare.
Ma dove devo andare?

Non dormo perché di giorno ci sono le telenovelas. Di notte ci sono i vecchi telefilm.
Non dormo perché piuttosto che il telegiornale, anch’io preferisco ricontrollare chi ha ucciso Laura Palmer.
Non dormo perché la libertà è diventata il volo di un moscone. Gira, gira, gira tutt’attorno a una gigantesca… Insonnia. No, non è insonnia. Mai stata insonne, io.

Non dormo, non dormo perché bisogna vegliare su quello che è rimasto.
Non dormo perché una volta un vecchio mi ha detto che le pistole, agli americani, gli avevano dato solo quelle inceppate. Quelle altre lo sapeva lui dov’erano. E il vecchio adesso è morto. Stanno morendo tutti, e si portano i loro segreti sottoterra, tanto nessuno è più in grado di capirli.
Non dormo perché non esistono i poveri ma belli. I poveri sono brutti, e la miseria imbruttisce anche gli animi, non è vero che il lavoro nobilita l’uomo, semmai lo fa mangiare, lo tiene occupato.

Solo che non dormo, perché non c’è più nessuno che ti insegna un mestiere, te lo devi inventare e siccome manca la fantasia ritorniamo ai mestieri più antichi della Storia.
Non dormo perché l’unico talent dei talent show è la mancanza di dignità che devi dimostrare. E per far vedere che sai cantare, ti riprenderono sotto la doccia, o mentre piangi.
Non dormo perché i quiz televisivi dove bisogna capire che lavoro fa una persona guardandolo in faccia sono troppo facili. È semplice, sono tutti disoccupati. Sono precari, anzi. Sono figuranti.
Non dormo perché Fante, Baricco, Proust, Hemingway.
Non dormo perché uno spagnolo l’aveva detto, della dictablanda: sembra una democrazia, invece è un fascismo col cazzo moscio. Un cazzo piccolo come quello del fascismo, ma è pure moscio.
Non dormo perché forse non è rosso come quello di una volta, ma il mio cuore batte ancora a sinistra.
Non dormo perché il comunismo, quello vero, faceva davvero schifo.
Non dormo, non dormo perché in questa Babele, ormai, parliamo tutti la stessa identica lingua: il css, l’html, qualche parola di inglese. Questione di mood, di groove, di fairplay. Il problema sono i nostri cuori, sono loro che parlano lingue diverse. Non ci capiamo più coi sentimenti.

Non dormo perché si può amare una persona e tradirla quotidianamente. ‘Perché tanto l’amore è un’altra cosa…’ Chi vuoi che ti rimproveri, se rompi un giuramento? Te stessa? Non dormo perché sì. Io sono la prima che non si vuole tradire.
Non dormo perché una volta la parola contava qualcosa, e adesso si fanno le smentite.
Non dormo perché ho delle multe da pagare, io. E finirà come per l’autobus. Perché alla fine sono i precari che pagano. I giovani, e i cinquantenni che vengono licenziati e non trovano più posto. E avranno freddo, e male ai piedi.
Non dormo perché il tempo del discorso, ora, è troppo lontano tempo della storia e non c’è nessuno a chiedermi perché mi giro e mi rigiro nel letto su un cuscino che domattina sarà la sacra sindone del trucco e del sudore.

Non dormo perché alla fine, lo so che non gliela darò vinta, lo so che non me ne andrò come tutti gli altri.
Non dormo perché Parigi,
Londra,
New York.

Ma a me piace ancora l’Italia.

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Genesi del cavolo


Questo blog nasce da un cavolo.

Se c’è una cosa, anzi due, che proprio non sopporto sono le novità e gli addii.

Quelle come me, così radicate alle abitudini che se ne perdono una o perdono un braccio è uguale, non possono accettare che dopo intere estati di zucchine gratinate; zucchine stufate; zucchine fritte con la pastella; zucchine fritte e basta; zucchine alla julienne; zucchine al forno; pasta zucchine e gamberetti; zucchine e patate bollite; zucchine ripiene; zucchine zucchine zucchine… improvvisamente, da un giorno all’ altro e senza un perché, uno straccio di motivazione, dalla pentola magica della mamma spunti un cavolo.

Lo vedo fare capolino a pelo d’acqua. Un cavolo lesso, per la precisione. Dice lui addio per me alle tanto care e decennali zucchine.

Ora, oltre alla genesi c’è bisogno di un piccolo cenno sugli obiettivi: non voglio parlare qui del prezzo della verdura, del precariato, di un paese che fatico ad amare, di chi in questo paese ci si sveglia un giorno e non ti ama più, e quindi l’università, il lavoro che non c’è e quando c’è fa schifo, l’amore che disattende promesse e regala bestemmie, la passione che può diventar impiego, sì, se per anni ti fai bastare cavoli a colazione, pranzo e cena – la cosiddetta gavetta del cavolo.

Ma poiché è storicamente dimostrato l’inadempimento delle attese di ogni manifesto programmatico che si rispetti, molto probabilmente proprio di tutto questo si scriverà. Con disillusione e rabbia. Una rabbia, per così dire, pedagogica perché vorrei insegnare al lettore quel senso spietato delle cose che l’amore tenero di una donna per anni celò a me stessa. E vorrei che il lettore restituisse a me la speranza che, davvero, ancora, può essere altrimenti.

Questo blog, nemmeno tanto in fondo, nasce per filologica fedeltà alle parole rimpinzata da un maldestro tentativo di adeguarsi ai tempi. Se un blog è un “diario in rete” e allora intrappoliamoli questi giorni, aggiustiamo le maglie sbrindellate dal tempo e dalle burrasche, lasciamo andar via i pesci piccoli e poi rispingiamoci al largo. Tanto una nuova mareggiata ci sorprenderà sempre, così come inaspettata tornerà la bonaccia.

Di disincagliarsi dalle secche non si finisce mai. Tutto è bene quel che non finisce? Col cavolo.